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La mia vita con George: capitolo 1


L’allarme mi sveglia alle 6,30 in punto. Ma non è la sveglia sul mio comodino, che è puntata alle 7,15, bensì un acuto latrato proveniente dal corridoio. Mi metto un cuscino sulla testa e cerco di tornare a dormire. Neanche a dirlo, perché la sveglia col latrato non ha il pulsante di spegnimento e continua a ripetersi a intervalli di trenta secondi, finché non mi sento profondamente colpevole. Dopotutto, è da mezzanotte che è chiuso in casa e probabilmente la vescica gli sta scoppiando. Rotolo fuori dal letto, barcollo lungo il corridoio e apro la porta dello studio. Undici chili e mezzo di cavalier king charles spaniel sono già in posizione accanto alla cuccia, con le zampe posteriori spalmate dietro e la coda che spazza sul pavimento come fosse la bandiera di un segnalatore. In una frazione di secondo è già in piedi che corre, spingendo tra le mie gambe senza nemmeno darmi un’occhiata di sfuggita. E anziché dirigersi verso la gattaiola che conduce in giardino, lui corre al piano di sopra, verso la cucina, senza smettere di abbaiare, con un luccichio di trionfo negli occhi. George avrà pure la vescica che gli scoppia, ma quello che vuole ancora di più è la colazione.

Furiosa con me stessa per essermi fatta trascinare nell’identica farsa che George ha inscenato ieri, e il giorno prima, e il giorno prima ancora, me ne torno a letto. Ma un minuto più tardi, accanto al mio cuscino compare un naso nero e umidiccio, insieme a due morbide zampette bianche e a una nube di caldo respiro canino. «Va’ via!», borbotto con tono un po’ meno gentile. Non essendo uno che molla facilmente, George continua la sua conversazione unilaterale a fianco del mio letto. C’è un solo modo per liberarsi di lui a quest’ora del mattino, ed è dargliela vinta. Una volta al piano di sopra, nella cucina-soggiorno, si precipita vicino al frigorifero quel tanto che basta per non bloccarne la porta e mi fissa con sguardo risoluto. Io preparo una generosa porzione di cibo secco completo per cani nella sua ciotola, che poi poggio sulla lastra di ardesia del focolare, ma George, anziché saltare in piedi per mangiare, non si smuove di un centimetro. Lui sa perfettamente cosa c’è dentro: briciole di biscotti secchi, rotondi e marroni, che lo tentano esattamente quanto gli escrementi di coniglio che imbrattano Hampstead Heath e che hanno lo stesso aspetto. Carichi di significato, i suoi occhi ruotano verso la porta del frigorifero e poi di nuovo verso di me. Quello che George vuole è adagiato all’interno di quell’enorme scatola di metallo ronzante. E per assicurarsi che io abbia recepito il messaggio, ripete la scenetta con la rotazione degli occhi un paio di volte leccandosi i baffi. Per un animale che ha il cervello delle stesse dimensioni e consistenza di un fungo, devo ammettere che George possiede delle abilità comunicative piuttosto efficaci. Rassegnata – dopotutto nemmeno io vorrei mangiare quegli escrementi di coniglio – apro la porta del frigo e tiro fuori gli avanzi del pollo arrosto della sera prima. George prende a ballare una salsa carica di anticipazione attorno ai miei piedi, mentre io prendo alcuni bocconi per aggiungerli alla sua ciotola, e quando la rimetto sul focolaio, lui scivola all’indietro davanti a me, deciso a non distogliere gli occhi neanche per un istante. Ancor prima che abbia toccato il pavimento, George ci si è tuffato dentro. Quando faccio per voltarmi, lui ha già individuato e mangiato ogni pezzettino di pollo e sta già abbaiando per averne ancora. «Mi spiace, giovanotto», dico con tono fermo, «non c’è altro ». George è decisamente in sovrappeso. È a dieta dimagrante da quando si è ripreso dall’anoressia e io dovrei controllare che la rispetti. George torna verso il frigorifero e abbaia a intermittenza contro la porta chiusa. Cercando di fare del mio meglio per ignorarlo, tento di pulire la scia di detriti lasciata in giro la notte prima da mio figlio diciassettenne: il maglione smesso appallottolato tra i cuscini del divano, il cellulare sullo scolapiatti, le fiches del poker sulla mensola del camino, il cartone del latte aperto che va a male sul tavolino, le tre scarpe da tennis (ma perché sempre tre?) disseminate a tradimento sul tappeto, proprio nel punto in cui è più probabile che io ci inciampi. Alla fine George smette di abbaiare, salta su una poltrona e mi lancia uno sguardo imbronciato. Lentamente, ma ineluttabilmente, la sua testa si abbassa. Ha accettato il fatto che non avrà altro da mangiare nell’immediato futuro e si appresta a dedicarsi alla sua attività di svago preferita: un sonno profondo e comatoso. Alle 8,15, dopo aver svegliato mio figlio dal suo sonno comatoso e averlo spedito a scuola, vado a svegliare George. Lui sa bene qual è l’attività successiva nella scaletta della giornata, così solleva il capo con estrema riluttanza e mi osserva con terrore. Intenzionata a fargliela pagare per avermi svegliata così presto, gli grido «Passeggiatina!» col mio tono più entusiasta, gli attacco il guinzaglio, lo tiro giù dalla poltrona e lo trascino fuori della porta. Voltandosi a lanciare un’occhiata triste verso la casa, George prende a trottare sulla strada accanto a me, dimenando la coda verso ogni macchina parcheggiata, con la speranza di salire in una di esse. Le passeggiatine in macchina – ossia stare seduto sul sedile davanti a osservare lo scenario che scorre dal finestrino – sono la forma di esercizio preferita di George, il che spiega i suoi problemi di peso. Io cammino a grandi passi davanti alle macchine, mentre il mio cavalier recalcitrante si attarda molto più indietro, grazie al guinzaglio allungabile. Ma siamo solo all’inizio. Quando la landa di Hampstead gli si staglia all’improvviso davanti, affonda gli artigli e si arresta del tutto. Io do uno strattone gentile ai cinque metri di corda che ora ci separano, ma George non si muove di un centimetro. Cerco di convincerlo dicendogli: «Coraggio, tesoro!», ma quando vedo che continua a non muoversi, nel mio tono dolce trapela l’esasperazione: «FORZA! George! Al piede! AL PIEDE, ho detto! FAI CIÒ CHE TI DICO!». George pianta le sue grosse chiappe posteriori sul marciapiede. Come due gangster alla resa dei conti, ci fissiamo l’un l’altro per tutta la lunghezza del guinzaglio. Ricordo che il comportamentista per animali che avevo consultato mi aveva consigliato di dimostrare a George chi comanda, senza mai lasciare che lui prenda il sopravvento su di me. «Okay», dico io il più calma possibile, «è abbastanza!». Dandogli le spalle, continuo a camminare e poiché George si rifiuta di terminare questa sua protesta passiva, viene trascinato dietro di me, strisciando sul sedere. Il collare gli sale fino su un orecchio e visto che è il re della teatralità, comincia a tossire e a soffocare come se venisse strangolato.

«Oh, guarda quel povero cagnolino!». Un gruppo di bambini in cammino verso la scuola elementare del quartiere ha pietà di lui, così sono costretta a fermarmi. Loro circondano George gridando: «È così carino!». Sbattendo le ciglia, George si rimette in piedi e si rannicchia accanto a loro con l’aria da santarellino. Ma appena le loro madri si avvicinano, si sposta su un lato, inarca la groppa e... «Bleah!». George deposita una perfetta coccarda sul marciapiede. Mentre mi chino per infilarla in una busta di plastica igienica, le madri raggiungono i loro stridenti pargoli. Guardano di traverso la coccarda, poi George e quindi me con decisa repulsione, come se permettendo al mio cane di fare la popò in strada abbassassi il livello del quartiere. Lego i manici del sacchetto il più veloce possibile per evitare che ne esca cattivo odore, ma non sono abbastanza rapida. Con le narici sollecitate che divampano, le donne rabbrividiscono involontariamente e trascinano via i loro figli. Una di loro mi lancia un’occhiata così sprezzante, da far pensare che sia stata io l’artefice di quel disastro. Mentre rimango lì in piedi, umiliata, con il sacchetto di plastica e il suo tiepido e molle contenuto che penzola dalla mia mano, mi sento inspiegabilmente seccata con George. Già è abbastanza spiacevole che io sia una delle poche ad Hampstead che deve portare a spasso il proprio cane, anziché assumere un professionista che lo faccia, e in più mi tocca raccogliere le sue feci. Inoltre, incidenti simili a questo si verificano con una tale regolarità, che comincio a sospettare che sia lo stesso George ad architettarli di proposito, per mettermi in imbarazzo di fronte ai miei simili. In altre parole, si vendica per essere stato trascinato a fare una passeggiata contro il suo volere. È possibile che sia così? È possibile che il mio cane si metta a defecare a comando solo per desiderio di vendetta? O sono io che sono completamente pazza? Ora bisogna sbarazzarsi del sacchetto gettandolo nel contenitore dei rifiuti per cani in fondo alla nostra strada. Eccolo lì, un congegno zaccheroso a forma di scatola cilindrica rossa che pullula di E. coli e toxocara1. Trattenendo il respiro per evitare i conati di vomito, sollevo il coperchio con la punta di un dito, lascio cadere dentro il sacchetto e corro via prima di essere raggiunta da esalazioni tossiche. Questi, mi dico, sono gli svantaggi del possedere un cane. A volte, a quest’ora del giorno, è difficile ricordarsi quali siano i vantaggi. George compie un giro di 180° nella direzione di casa – dopotutto ha fatto quello che doveva fare e non capisce quale altro scopo abbia la passeggiata – ma a me non interessa. Stringendo il guinzaglio, lo tiro dall’altra parte della strada che separa le vie residenziali di Hampstead Village dalle distese aperte dell’Heath. Una volta arrivati dall’altro lato, mi congratulo con me stessa per aver segnato un’importante vittoria: sono riuscita a portare qui fuori George e sono solo le 8,45. Poiché si rende conto che non ha senso cercare di sfuggire a questa marcia forzata, arranca dietro di me con il broncio. Sarà pure venuto a fare una passeggiatina, ma che sia dannato se decide di godersela. Sguinzaglio George appena svoltiamo sul sentiero costeggiato di alberi che termina su un vasto prato in discesa, che si estende fino ai laghetti di South End Green. Tutt’intorno a noi ci sono retriever, labrador, alsaziani, dalmata, bassotti, jack russel terrier e meticci assortiti che saltellano in mezzo all’erba alta, rincorrono palle, riportano dei bastoni o semplicemente giocano felici accanto ai loro padroni. A differenza di questi cani, il mio cavalier rimane inchiodato sul posto, mentre io passeggio più avanti. A metà del campo, lancio un’occhiata furtiva sopra la mia spalla per vedere se mi segue. No, è ancora esattamente nello stesso punto in cui era quando gli ho tolto il guinzaglio. Come suo solito, George prende posizione contro le passeggiate rimanendo immobile. Gli dico di alzarsi. Grido. Fischio. Urlo. George rimane immobile proprio come fosse quel grazioso peluche cui tanto assomiglia. Solo quando mi nascondo dietro un albero, e lui non riesce più a vedermi, resuscita. Preoccupato di perdere per sempre il suo buono pasto, compie alcuni esitanti passi nella mia direzione, che poi si trasformano in un veloce trotto e infine in una corsa sfrenata. E mentre corre, avviene una meravigliosa trasformazione: l’espressione infelice di George scompare. Potrei giurare che a metà del campo stia sorridendo, forse addirittura sogghignando. Persino un cane così schivo agli esercizi come lui non riesce a resistere a una corsa nell’Heath in una soleggiata mattinata primaverile, quando l’aria è frizzante e fresca, il sole basso e gli alberi stanno per fiorire. All’improvviso George è un animale diverso. O forse, semplicemente è un animale. Col naso a terra come i cani da cui discende la sua razza, George insegue la scia di mille conigli, scoiattoli e volpi e corre qua e là sul prato. Spaventa dei picchi che si crogiolano e punta le gazze. Insegue gli scoiattoli fino sugli alberi e beve acqua dalle pozzanghere fangose. Fermandosi ad annusare la terra, cade sul dorso e si rotola da parte a parte, agitando felicemente le zampe nell’aria. Io mi siedo su una panchina e lo osservo, e così la mia esasperazione svanisce. Okay, George è un cane difficile, caparbio e ostinato a cui non piace stare all’aria aperta. Non rincorre una palla come i cani normali. Non ubbidisce ai comandi, non riporta indietro i bastoni o stringe la zampa, o fa altri giochetti. In effetti, è decisamente inutile. Tutto ciò che sa fare è mangiare pollo, abbaiare, fare a pezzi i fazzoletti di carta ed essere servito e riverito. Ma di tanto in tanto smette di comportarsi come il rampollo viziato di un principe reale e torna a essere un comune bastardino, colmo di pura ed esuberante gioia animale. E osservarlo quando si comporta così, mi mette sempre di buonumore. Appagato dal suo lungo rotolarsi nell’erba e con l’aria di chi sembra straordinariamente compiaciuto e soddisfatto di sé, George salta in piedi, mi vede, si lancia lungo il campo verso di me e si getta nel mio grembo. Sopraffatta dalle emozioni che provo per il migliore amico di una donna, lo abbraccio e bacio la bianca lanugine che cresce in cima alla sua adorabile testa. «Bravo ragazzo», chioccio, da perfetta signora amante dei cani quale sono.

«Ti adoro, Giorgino porcellino!». E poi, mentre siamo seduti insieme sulla panchina come una signora col suo cane in felice armonia, ecco che un odore muschiato acre e decisamente sgradevole si leva lentamente dal corpo caldo di George, fino a giungere alle mie narici. Guardo in basso e mi rendo conto che George non si è rotolato per terra per puro piacere. No, si è rotolato in qualcosa – ed è qualcosa di appiccicoso, marrone e disgustoso. Qualunque cosa sia – e non voglio pensarci troppo in dettaglio – ce l’ha su tutta la groppa e sulla museruola e sulle zampe posteriori e su quelle anteriori. Ma non è solo lui ad esserne ricoperto. Lo sono anche io. Spingo questo sporco mostro appiccicoso via dal mio grembo e mi pulisco le mani sporche e appiccicose su un ciuffo d’erba. Attacco il guinzaglio al collare sporco e appiccicoso e mi dirigo verso casa. George fa strada, con la coda sporca e appiccicosa issata alta, che ondeggia come una sbrindellata bandiera della vittoria. E ha ragione. Malgrado tutte le aspettative, è riuscito a capovolgere la situazione contro di me e ha vinto la battaglia: la nostra passeggiata mattutina, che avevo deciso sarebbe durata almeno quaranta minuti, è già finita dopo che ne sono passati solo dieci. Nel momento in cui oltrepasso la porta d’entrata, mi tolgo i vestiti sporchi e getto George nella vasca, ma solo dopo che lui si è rotolato sul tappeto dell’ingresso, imbrattandolo della stessa sostanza disgustosa di cui è ricoperto lui. Lo lavo e gli faccio lo shampoo, poi lo asciugo con il mio asciugacapelli. Lavo e faccio lo shampoo al tappeto dell’ingresso, poi lavo a fondo la vasca. Per finire lavo a fondo anche me, indosso dei vestiti puliti e getto i jeans in lavatrice, insieme agli asciugamani sporchi di George. Alla fine, infilo il cappotto macchiato in una busta di plastica e lo porto dal lavasecco di Hampstead Village. Questa volta, quando esco, lascio George a casa. Mentre cammino nel vialetto del giardino, lui salta sulla sponda del divano e mi guarda con aria di biasimo dal bovindo, come a chiedermi perché lo sto abbandonando. Torno a casa e trovo George sdraiato sul mio copripiumino bianco, che nell’ultima mezz’ora, misteriosamente, si è tinto di una fantasia stile Carica dei 101 ed è ricoperto di grandi zampate grigie. George dorme sodo e russa, col naso increspato che riposa tra le sue zampe giganti. Anche se ufficialmente non gli è permesso stare sul letto, ha un’aria così pacifica che non posso disturbarlo. Anziché iniziare a lavorare, mi getto accanto a lui. Anche se sono solo le 10,30, sono già esausta. Sono in piedi da quattro ore e in un modo o nell’altro George le ha impegnate tutte. Perché, ma perché, mi chiedo, ho preso un cane?

Ufficio stampa Newton Compton

Notizia stampata il 07 Aug 2025 su www.animalinelmondo.com il portale al servizio degli animali